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Sul senso di “giocare come viene”

[Con particolare riferimento a: https://plus.google.com/111413099552789758068/posts.]

Alcuni dicono che giocando a Trollbabe il personaggio emerga da solo; altri dicono che giocando a Monsterhearts il personaggio stupisca il giocatore. Ora, alcune di queste affermazioni possono sembrare esagerate, ma io credo che ci sia un fondo di verità.

Giocando tradizionale, di solito, la premessa per drammatizzare il personaggio era ritenuta scrivere background imponenti (io stesso ricordo di averne scritti tra le 13 e le 10 pagine). Lo stesso si riteneva per l’ambientazione: il supplementone da 100 pagine in cui il grande autore di romanzi fantasy ti faceva una testa tanta su quanto fosse figa quella particolare ambientazione (e lo era davvero, quando la leggevi, caspita!). Il punto è che questa strategia si è rivelata fallimentare: scrivere cose fighe e giocare cose fighe è diverso, ragion per cui anche i romanzi delle Cronache di Dragonlance sono un bel po’ diversi dalle avventure (moduli di D&D) alle quali si ispirano.

Spesso questa cosa, nel giocatore, portava alla frustrazione: per un GM leggersi e sapere a memoria i background di 4-5 personaggi (in totale una cinquantina di pagine piene di “quanto so’ figo!”) era un lavoro; difficile da seguire, impossibile non sbagliare. Per gli altri giocatori, calpestare i piedi a cotanta figaggine era la norma (perché “mica leggo il background del tuo personaggio; il mio che ne sa, in fondo, della sua storia?”). Per lo stesso giocatore era motivo di frustrazione: tante seghe mentali prima e una pugnetta dopo, quando lo giocavi.

Morale: alcuni giochi ci hanno detto che, no, non dovevamo fare il cazzo di background, che non dovevamo farci il film in testa prima: dovevamo metterci la testa quando giocavamo e tirare fuori le idee lì. La prima idea che esce è quella buona: a te sembrerà banale, ma a qualcun altro al tavolo no, perché ognuno di noi pensa diversamente. Ci metterà del suo, la arricchirà, e allora uscirà qualcosa di spontaneamente figo. Questo concetto viene espresso con la frase-parola play dumb (“gioca stupido”) che una volta mi è stato parafrasata con qualcosa del tipo: «non pensare a fare figa la storia da solo, con la superidea tua e solo tua, ma di’ la prima cosa che ti viene in mente e ci penseremo assieme a renderla figa».

Di solito, nei giochi tradizionali, il contributo dei giocatori al tavolo è poco o nullo: si ritiene che debba essere il GM a sbattersi certe cose e che gli altri debbano “seguire la storia”, al massimo facendo alcuni cambiamenti o scelte. Osare di più spesso conduceva ad una frustrazione, quindi il giocatore medio si è abituato per anni a giocare passivo, credendo di non essere in grado di dare input alla storia (specie sul momento). È risaputo, infatti, che abile come GM veniva ritenuto solo chi era un “mago dell’improvvisazione”, quando spesso e volentieri si trattava solo di “quello che a 15 anni si è letto un papiro da 350 pagine prima degli altri”.

La morale di questa riflessione vuole essere: cerca di “giocare stupido”, gioca a sorprendere te stesso (e di riflesso gli altri), fissa pochi punti da cui cominciare, tre cose che facciano capire che personaggio hai davanti, e cambia rotta quando ti pare: non sentirti obbligato a qualcosa di fissato prima, semplicemente perché non c’è nulla di veramente fissato prima.

P.S. Chiedo scusa per il papiro: mi è uscito di getto.


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