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Wolfenblot: Irdlirvirisissong

Se in questi mesi vi siete chiesti “Ma che fine ha fatto Wolfenblot?” e avete temuto, anche solo per un istante, che avessi abbandonato il progetto, sappiate che non è così. Wolfenblot è ancora in cantiere: la sua priorità è solamente slittata un poco sotto, siccome in questo periodo sto playtestando Tirnath-en-Êl Annûn e Vendetta.
Ma come mai un post su Wolfenblot, allora? Be’, perché, recentemente, ho avuto occasione di scrivere un racconto ambientato nel mondo di Wolfenblot, Oblivia, e ci tenevo a condividerlo con voi. È un po’ più lungo di quelli che scrivo di solito, ma rientra comunque nella definizione di racconto breve.
Spero che vi piaccia!
The Iron Wolf Barbarians © 2011-2015 Noah Bradley

Irdlirvirisissong

Il gelido vento del nord spirava violento e selvaggio tra le cime della catena del Den Tragg. In questa parte dell’anno, la neve ricopriva i monti e gli abeti grigi, tipici di questa regione di Oblivia.
Tra i monti, gli abeti e la neve, si stagliava solo Grimsdalr, la cittadina-fortezza dello jarl Jórulfr Grímsson. Dal camino della sua sala dei banchetti, il fumo nero veniva disperso per la valle dal crudele vento. Al di fuori del suo maestoso portale di legno spesso, istoriato dalle abili mani degli intagliatori provenienti dalle terre del Nord, dagli spiragli, fuoriusciva la luce dell’enorme focolare, mai digiuno di legna. Al di sopra di esso, erano state affisse diverse teste di lupo mozzate.
In tutta la valle erano famose le cacce ai lupi condotte dal di lui padre, Grímr Spezzaferro, e intensificatesi da quando era Jórulfr a sedere sullo scranno dello jarl. E, infatti, egli era detto Sterminalupi, e tutti i þegnar e gli húskarlar alle sue dipendenze usavano agghindarsi di pelli di lupo, e gli stipiti delle loro case erano pregni del sangue di quei magnifici animali, secondo l’antica usanza di tingere l’architrave degli usci col sangue delle prede, come trofeo per le imprese di caccia.
Dall’interno della sala di Jórulfr Sterminalupi, proveniva un baccano infernale, che rimbombava per le pendici dei monti circostanti e impediva alla gente comune, quella che per vivere lavorava la nuda terra, di dormire, anche se nessuno avrebbe mai osato lamentarsene, per timore di venir messo a morte, seppure per una questione così futile.
Quando la porta cominciò a scricchiolare, e poi ad aprirsi, davvero in pochi se ne accorsero, poiché il rumore era completamente sovrastato dal frastuono dei festeggiamenti. I primi che ci badarono, per gli spifferi di aria gelida, furono gli húskarlar che erano di guardia all’ingresso, per quanto scomposti a causa dell’ebbrezza dell’idromele.
— Chi disturba i miei festeggiamenti, portando il rigore dell’inverno nella mia casa?! — tuonò la voce di Jórulfr, cavernosa e altera, per tutta la sala.
Era la figura di una vecchia, vestita di cenci di lana, che un tempo dovevano essere stati vestiti veri. Era anziana, avvizzita, con la pelle scavata, i vestiti sporchi, che sapevano di bestiame, e i capelli grigi, della consistenza della stoppa, adornati da fili di strame. La mano destra, debole com’era, si aggrappava a un nodoso bastone di frassino, mentre al braccio destro aveva appeso un cesto di vimini con dentro una sola rosa, mezza sciupata e mezza appassita, di un colore purpureo che, incupito com’era, richiamava quello del sangue rappreso.
— Sii generoso, sire — rispose la vecchia, con voce titubante e sommessa, a malapena udita dalle orecchie dello jarl, non foss’altro che gli astanti erano troppo intimoriti dalla sua reazione per continuare imperterriti i festeggiamenti. — Cammino da giorni interi per queste valli e non trovo alcun figlio di madre che mi dia riparo per la notte, in cambio della sola cosa che posseggo: questa rosa. Di questo passo, le mie membra stanche si assopiranno nella neve e gli spiriti maligni che servono Kasunach, il Re Stregone, strazieranno le mie carni morenti.
Al solo udire quel nome – Kasunach – tutti i presenti parvero battere i denti e la sala si riempì del tintinnio delle loro giunture, delle loro armi e dei loro giachi di maglia. Persino la terra e il legno stesso dalla sala tremarono di quella stessa paura.
Uno dei due húskarlar vicini alla porta la batté con forza, col rovescio della mano, e la fece cadere per terra: — Brutta megera, impara a portare rispetto allo jarl Jórulfr Grímsson lo Sterminalupi, e non osare mai più nominare coloro che non possono essere nominati!
L’anziana donna sputò per terra del sangue, lo stesso sangue che ora le rigava la guancia e che le sporcava i denti.
Nel frattempo, l’altro húskarl le aveva sottratto il cesto, anch’esso caduto per terra, e stava armeggiando con quell’unica rosa appassita che vi portava dentro. — Ahia, mi sono punto! — Tutta la sala rise per la sua imbranataggine. — Maledetta vecchia, ora la pagherai! — e sollevò la sua spada rinfoderata per batterla con essa, come a far pagare alla povera sventurata il frutto della sua idiozia.
— Kollsveinn, fermo! — Jórulfr non dovette dire altro: lo húskarl abbassò la spada, brandita a mo’ di bastone, ma, per spregio, pestò con forza e disprezzo la povera rosa, ora caduta, con gli stivali lerci del fango formato dalla terra e dalla neve sciolta dal calore della sala. — Tu, vecchia, qual è il tuo nome? — seguitò lo jarl.
— La mia gente mi chiama Irdlirvirisissong, sire.
— Irdlir… che mi venga un colpo! Che razza di nome è mai questo?!
— La mia gente dice che è un nome dell’antica lingua: significa…
— Basta, vecchia! Ne ho fin sopra la barba dei miei avi della tua gente! — disse lo jarl, altero come sempre. — Piuttosto, dimmi, vecchia, perché dovrei darti ospitalità in cambio di quella rosa rattrappita? Non saprei che farmene.
— Se non puoi accogliermi per ciò che ti porto, accoglimi almeno come gesto di gentilezza, di misericordia…
— La gentilezza è per i deboli e la misericordia è per gli sciocchi. — Poi lo jarl la squadrò meglio: — Se tu fossi giovane, cosa che non sei, potrei tenerti qui, questa notte, e le tue membra piene di vitalità scalderebbero il mio letto. Ma ora tu sei vecchia, zoppa e inutile, e di te non saprei che farmene. Non saresti buona neanche come cibo per i lupi che flagellano queste terre.
Lo sguardo di Irdlirvirisissong si fece di colpo colmo di odio e di livore, alle parole dello jarl. Egli se ne accorse e disse: — Se tu fossi venuta per la strada principale, avresti notato molte persone lungo di essa, impiccate per molto meno di avermi rivolto uno sguardo come quello che tu mi hai appena lanciato, vecchia. Ma stanotte mi sento magnanimo. — Si rivolse ai suoi uomini: — Gettatela fuori di qui! — e i loro sguardi tradirono la soddisfazione che avrebbero provato nell’ubbidire a quell’ordine, e chissà cos’altro le avrebbero fatto.
— Ti prego, sire — supplicò quella — se non vuoi accogliermi per gentilezza o per misericordia, lascia almeno che ti allieti col canto.
Stavolta Jórulfr era genuinamente incuriosito: — E sia! Che le sia data una lira, presto! — e lo skáld, vicino allo jarl e per nulla felice di privarsi del suo fido strumento, nondimeno assecondò il desiderio del suo signore, timoroso di incorrere nella sua ira.
Irdlirvirisissong prese la lira tra le sue mani come se fosse un infante, la cullò e la pizzicò dolcemente con le sue dita che, per quanto avvizzite, non mancavano della giusta eleganza. La sua voce proruppe, sonora e ammaliatrice:
Nella notte di Grimsdalr
spirava un vento forte;
bevevan per la morte
dei lupi uccisi ancor.
Gran torto fu compiuto,
lor tutti pagheranno;
assiso sul suo scranno,
guardate: Jórulfr muor!
Mentre ella cantava, gli astanti rimasero estasiati e non sapevano giustificarsi come una tal vecchia potesse avere una voce tanto angelica.
L’incanto terminò con gli ultimi versi del suo canto, quando tutti, e Jórulfr in primis, realizzarono il significato delle sue parole: — Che storia è mai questa, vecchia?! Sei forse tu latrice di una tetra profezia a danno mio e della mia gente?
— Tu lo dici, sire, poiché sia tu che la tua gente morirete in questa notte, sotto le zanne dei lupi delle montagne: molte madri verseranno lacrime amare per i peccati dei quali vi siete macchiati! — e, così dicendo, sollevò il sortilegio che ne aveva finora mascherato le vere sembianze e, davanti agli uomini del Nord, ora si ergeva una lupa, dal manto screziato di peli grigi d’anzianità.
Nella sala dei banchetti si diffuse lo scompiglio generale. Nessuno prestò attenzione al soffiare del vento, che seguitava da tutta la notte e che ora era aumentato d’intensità. Nessuno si accorse che il suo ululare ora aveva lasciato spazio a un altro ululare, molto più intenso: quello dei lupi delle montagne, colmo di vendetta.
Se solo lo jarl Jórulfr Grímsson, detto lo Sterminalupi, fosse stato più attento e meno altero, se solo avesse lasciato terminare le parole di Irdlirvirisissong, forse ne avrebbe avuto un monito, un avvertimento almeno! Poiché, nell’antica lingua, Irdlirvirisissong significa “colei che porta la vendetta dei lupi”.

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