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La scatola dei Lego

Ovvero, gli unici giochi che ho scritto sono quelli che non volevo scrivere.
Sembrerà una semplice provocazione, eppure è proprio così: gli unici giochi che sono riuscito a scrivere, per quanto incompleti e imperfetti, sono quelli che non volevo scrivere. Quelli che volevo scrivere sono ancora in alto (altissimo!) mare.

Ma come è possibile una simile contraddizione di termini? Beh, la risposta è piuttosto semplice: i giochi che sono riuscito a portare a una versione di bozza sono stati tutti scritti per concorsi e competizioni che davano consegne ben precise e un lasso di tempo limitato per la progettazione. In questo modo ho partecipato a tre Game Chef, un’Alchimie del Gioco e un G2P (sebbene nella prima delle sue due edizioni, stessi lavorando a ben due giochi, che però non ho mai né ultimato né consegnato).

Il paragone è semplice: è quello della scatola dei Lego. Quando i tuoi genitori sono generosi e ricchi e hai una grossa scatola di Lego, con dentro tantissimi pezzi diversi, puoi fare quello che vuoi, ma in te si genera un orgasmo di possibili forme e visioni, misto al classico panico da foglio bianco, contrastato solo da quello dell’incertezza nella fine del lavoro, tipico del poeta perfezionista (“Quando considererò finito questo gioco?”). Quando invece non hai che pochi pezzi di Lego, sai che non potrai fare il castello medievale e che avrai pezzi sufficienti a malapena per costruire il ponte levatoio e un torrione, e ti basta quello: la tua visione è più contenuta, focalizzata, hai il senso dello scopo, il panico da foglio bianco scompare e sai che, lavorando con poco materiale, da te non si potrà pretendere chissà che capolavoro. Ti dà uno scopo, ti dà una missione. Limits boost creativity, dicono gli anglofoni. Le limitazioni spronano la creatività.
Ed ecco perché gli unici giochi che ho scritto sono quelli che non volevo scrivere.

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